Il progetto K-Bus di Sequoia

Gli aspetti scientifici del progetto K-Bus

Questo documento intende fornire una panoramica scientifica dei concetti tecnologici alla base del progetto K-Bus.

Tale progetto propone un sistema di mobilità pubblica alternativo a quelli che utilizzano combustibili fossili ed è protetto da un brevetto – ideato da Sequoia Automation e di sua proprietà – recentemente concesso dalle principali autorità mondiali competenti[1], [2], [3] (United States Patent and Trademark Office, European Patent Organization e Canadian Intellectual Property Office).

La soluzione proposta, ritenuta tecnicamente ed economicamente credibile ed a basso impatto ambientale, si basa su apparati di accumulo dell’energia dalla vita utile molto lunga (potenzialmente superiore a quella degli stessi veicoli) e su una loro ricarica particolarmente rapida (nell’ordine dei secondi).

Questo documento cercherà pertanto di fornire un percorso logico alle caratteristiche tecniche di quei due componenti, che sono il cuore del sistema.

Dopo una breve e generale contestualizzazione, esso passerà ad affrontare i vari aspetti tecnologici legati al progetto.

Presenterà pertanto una panoramica sull’accumulo dell’energia, illustrando i prodotti oggi sul mercato, con i relativi vantaggi e svantaggi, e definendo quale tecnologia sia più funzionale al progetto proposto.

Si soffermerà sulle caratteristiche presenti e sulle future potenzialità di detto sistema di accumulo di energia, sotto gli aspetti sia tecnico che economico.

Tratterà inoltre brevemente il tema della mobilità elettrica, presentando quindi il secondo componente-chiave del K-Bus, che è il sistema di ricarica rapida degli accumulatori.

Verranno in particolare analizzati gli aspetti tecnologici e più innovativi di tale sistema, non trascurando infine le valutazioni di tipo economico che, fin d’ora, dimostrano la competitività del progetto.

Una società moderna non può prescindere dalla disponibilità di fonti energetiche a basso costo; ed è anche ormai evidente come l’impatto ambientale e sociale dell’uso di combustibili fossili stia diventando sempre più insostenibile e come lo sviluppo di nuove ed efficienti tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili sia pertanto un’esigenza improrogabile.

Correlata ad essa, sottolinea un recente report del Department of Energy statunitense[4], è la necessità di nuove tecnologie per l’accumulo dell’energia, indispensabili per sopperire alla discontinuità di due fra le più importanti di tali fonti, la solare e l’eolica, per limitare gli sbalzi di potenza sulla rete elettrica (sempre presenti, indipendentemente dalla fonte di energia impiegata) e per fornire energia ai futuri dispositivi portatili nonché a quei veicoli elettrici di nuova generazione inevitabilmente destinati a sostituire gli inefficienti e inquinanti mezzi a motore termico; tutti impieghi le cui esigenze non sembra possano essere soddisfatte al meglio dai dispositivi di accumulo oggi in commercio. 

Nell’odierno orizzonte tecnologico, gli accumulatori di energia utili ai fini citati si possono raggruppare in tre famiglie: quella delle batterie, quella dei condensatori elettrochimici e quella degli ibridi fra le prime due (Figura 1). La classe dei condensatori elettrochimici, per il tipo di impiego qui esaminato, si limita ai cosiddetti supercapacitori o ultracapacitori mentre, per le batterie, si possono utilizzare le sole ricaricabili (batterie secondarie), giacché tutte le applicazioni prese in esame prevedono continui cicli di carica e scarica. Per quanto riguarda infine i dispositivi ibridi, noti anche come supercabatterie, che sono l’unione di una parte di supercapacitore con una parte di batteria, essi sono facilmente inquadrabili nelle descrizioni che saranno date per i tipi di accumulatori presi singolarmente in esame.

 
Figura 1: Schema degli accumulatori di energia descritti di: A) Supercapacitore, B) Batteria e C) Ibrido fra i due (supercabatteria)[5], [6].

Tutti i tipi di accumulatori descritti hanno una struttura sostanzialmente simile, composta da due elettrodi immersi in una soluzione elettrolitica e separati da una membrana isolante, che ha lo scopo di evitare un contatto elettrico tra le armature pur permettendo una conduzione di tipo ionico (Figura 1).

Quanto ai principi fisici su cui si basa l’accumulo di energia, le batterie sono caratterizzate da una serie di reazioni Faradiche di ossido-riduzione, che determinano la generazione di cariche elettriche [7]. Dette cariche producono il lavoro elettrico effettivamente sfruttabile passando da un’armatura all’altra della batteria per via del differente potenziale elettrico che si è venuto altresì a generare e che rimane relativamente costante fino al quasi esaurirsi dei reagenti. Il principale vantaggio di questo tipo di reazioni sta nell’elevata densità energetica che può essere immagazzinata per via elettrochimica. Ma è quella stessa natura chimica che ne causa anche i principali svantaggi: poiché durante le ripetute fasi di carica e scarica il materiale attivo degli elettrodi si degrada, portando ad una progressiva perdita di prestazioni che rende il dispositivo inutilizzabile in un tempo piuttosto breve; e perché le ossido-riduzioni Faradiche comportano tempi di reazione relativamente lenti, che limitano anche la densità di potenza erogabile dal congegno.

I supercapacitori immagazzinano invece energia accumulando carica elettrostatica agli elettrodi, come nei tradizionali condensatori. Nella loro famiglia si distinguono due principali tipi: gli EDLC (dall’inglese Electrical Double-Layer Capacitor, ovvero condensatori a doppio strato elettrico) e i pseudocondensatori.

Gli EDLC sono i più diffusi, anche perché già in commercio fin dagli anni ‘70. La loro capacità deriva appunto dalla densità di carica elettrostatica superficiale accumulata all’interfaccia degli elettrodi, in funzione del potenziale elettrico applicato[7]. Quindi, nel processo di carica e scarica, essi non comportano reazioni chimiche o variazioni di volume ed il ciclo risulta così perfettamente reversibile, con conseguenti elevata efficienza e grande velocità di risposta. E’ da queste caratteristiche che derivano i vantaggi più significativi dei supercapacitori[8]: una vita utile estremamente lunga e una densità di potenza elevata; il che non garantisce soltanto una notevole potenza durante il loro ciclo attivo, ma anche un tempo di ricarica estremamente rapido (pochi secondi), unito ad efficienze molto elevate.

Costruttivamente, i loro elettrodi sono oggi composti da materiale carbonioso a struttura alveolare molto porosa[9], che offre una buona conducibilità elettrica, una grande area superficiale specifica e quindi ampio spazio per l’accumulo delle cariche elettrostatiche. Detto materiale attivo è generalmente pressato – e stabilizzato per mezzo di un legante – su un foglio di alluminio, che funge contemporaneamente da collettore elettrico e da supporto meccanico alla polvere di carbonio (Figura 2).

Figura 2: struttura costruttiva di un tipico supercapacitore EDLC [9], [10].

Quanto ai pseudocondensatori [8], nonostante essi posseggano caratteristiche interessanti, che li pongono a metà strada tra le batterie ed i supercapacitori, sono ancora poco presenti sul mercato per alcuni problemi tecnologici non ancora risolti, che derivano soprattutto dal sistema di accumulo attraverso reazioni pseudo-Faradiche e quindi da inconvenienti tecnici affini a quelli delle batterie. Ad essi si aggiungo problemi di tipo economico, poiché le materie prime in essi usate ed i processi di sintesi impiegati sono ancora troppo costosi per poterli far concorrere sul mercato dei supercapacitori.

In generale, confrontando le caratteristiche di supercapacitori e batterie commerciali [5], [11] si nota come i primi posseggano una densità di potenza di quasi due ordini di grandezza superiore rispetto a quella delle seconde, con conseguente spunto maggiore e tempi di ricarica notevolmente inferiori – oltre alla possibilità di ottenere un efficiente harvesting energetico – ed una vita utile nettamente superiore: qualche milione di cicli, contro qualche migliaio nella migliore delle ipotesi (Figura 3). Per contro le batterie, come già notato, hanno una densità di energia di almeno dieci volte superiore ed un costo iniziale per Wh accumulato di circa un decimo (però il costo per quantità di energia accumulata, se calcolato sui rispettivi cicli di vita dei dispositivi, gioca ancora a favore dei più longevi supercapacitori – si vedano maggiori dettagli in appendice). Altri aspetti, non direttamente legati all’accumulo di energia, ma ugualmente importanti, sono l’affidabilità e la manutenzione; entrambe voci che giocano a favore dei supercapacitori; i quali non richiedono praticamente manutenzione, sono meno soggetti a rischi da surriscaldamento e, diversamente dalle batterie, sono indifferenti alla “scarica profonda” (possono essere scaricati completamente senza risultarne danneggiati).

Figura 3: Grafico di Ragone e tabelle comparative delle caratteristiche generali di supercapacitori e batterie[5], [10], [12]. *tempo impiegato per la carica/scarica dell’energia totale realmente utilizzabile accumulata nel dispositivo, **potenza di una batteria utilizzabile per brevi periodi in scarica parziale al 90% di efficienza.

Inoltre, grazie al tipo di elettroliti impiegati ed al processo fisico di accumulo energetico, i supercapacitori sono operativi su un intervallo di temperatura più ampio (-40/+65 °C, Figura 3) e molto più efficienti, specie alle basse temperature[13]. L’accumulo elettrostatico, rispetto a quello via reazioni Faradiche, tipico delle batterie, li rende infatti meno sensibili alle condizioni d’impiego, conferendo quindi loro anche un maggiore grado di sicurezza.

È evidente comunque che queste due famiglie di dispositivi, considerate le loro caratteristiche odierne, presentino ancora proprietà complementari. Il che spiega i motivi per cui si cerchi sempre più di integrarle in molte applicazioni.

Sullo stesso motivo si basa anche lo sviluppo degli AEDLC (dall’inglese Asymmetric Electrical Double Layer cCpacitor, ovvero “condensatori asimmetrici a doppio strato elettrico”), noti anche come supercabatterie o supercapacitori ibridi, in cui un’armatura è composta da un elettrodo di supercapacitore e l’altra da un elettrodo pre-dopato con ioni litio, simile quindi ad un elettrodo da batteria[6], [10]. L’intento perseguito da tecnici e produttori, per questi apparati già presenti sul mercato, è quello di mediare alle proprietà dei due tipi di accumulatori, ma senza che siano ancora realmente riusciti a risolverne le intrinseche limitazioni, pur complicando l’architettura costruttiva dei congegni.

Nonostante questo tentativo di colmare il gap tra le due tecnologie abbia un certo seguito tra alcune nuove aziende del settore, molti esperti concordano nel ritenere più vantaggiosa la strada del puro supercapacitore. Un’analisi, la loro, dettata da vari fattori concomitanti in forza dei quali, negli ultimi anni, il trend di crescita prestazionale del top di gamma dei supercapacitori è superiore a quello ottenuto dall’omologo delle batterie. Se persistesse questa tendenza, si potrebbe perfino prevedere che nel giro di 15-20 anni i supercapacitori possano arrivare a competere con le batterie anche sulla densità di energia accumulata.

Sebbene i possibili miglioramenti teorici diano ancora ampio margine di crescita prestazionale per entrambe le tecnologie, osservando i reali trend ottenuti dai prodotti commercializzati, la relativa “giovinezza” della ricerca sui supercapacitori e gli stessi limiti teorici potenziali, sembra più probabile un marcato miglioramento nelle caratteristiche dei supercapacitori che in quelle delle batterie. Basandosi infatti, i supercapacitori, sul grafene quale materiale attivo (Figura 4), nel medio-lungo periodo essi potrebbero teoricamente raggiungere una densità energetica sei volte superiore a quella delle batterie agli ioni-litio, mantenendo al contempo una netta superiorità quanto a cicli di vita, affidabilità e densità di potenza[14].

Figura 4: esempi di grafene nanostrutturato per applicazioni nei supercapacitori: A) struttura a nido d’ape 3D [15], B) nanosfere da CVD[16], C) spugna di aerogel[17].

Nel breve periodo, uno studio congiunto di Varco – società partecipante al progetto K-Bus – e dell’Università degli Studi di Trento, ha evidenziato come, anche ricorrendo a materiali già in commercio, esistano ancora buoni margini di miglioramento. In particolare, sfruttando materiali attivi già presenti sul mercato, si può pensare di ridurre notevolmente il peso dei collettori di alluminio (che sono massa inerte nel supercapacitore) e ridurre la complessità interna del dispositivo. Sostituendo poi la membrana di separazione degli elettrodi (di solito, un foglio di cellulosa) con un coating permeabile, si potrebbero abbassare ancora le resistenze elettriche interne ed anche facilitare il processo produttivo. Un altro campo di ricerca interessante è quello sugli elettroliti. Le idee direttrici, per sostituire i solventi oggi più largamente impiegati, sono due: a)- ampliare la finestra di voltaggio usufruibile, per aumentare con essa l’energia accumulata;  b)- usare liquidi innocui per la salute o l’ambiente e non infiammabili; con varie e promettenti soluzioni possibili[18], [19]. Da non trascurare, infine, è la ricerca sul packaging perché, considerato il peso attuale dei supercapacitori, nuovi materiali e nuove tecnologie potrebbero ridurlo in misura apprezzabile, senza compromettere il loro elevato standard di sicurezza per l’utilizzatore finale.

I margini per creare nuove opportunità sono quindi molto ampi, anche su concetti e materiali consolidati. Ciò ha avuto tra l’altro conferma da una recente intervista a Earl Wiggins, VP of operations alla Maxwell Technologies, leader del settore supercapacitori[20]; intervista dalla quale si apprende che la Maxwell stessa sta operando in questo senso per il breve periodo, allo scopo di aumentare le prestazioni dei suoi supercapacitori, pur riducendone ancora i costi di produzione.

Alla luce di tutto quanto sopra, è chiaro il motivo per cui i supercapacitori siano stati la prima scelta per K-Bus e come essi si pongano alla base delle idee di mobilità a zero-emissioni studiate da Sequoia Automation. Essi infatti, grazie all’alto numero di cicli di carica e scarica, di diversi ordini di grandezza superiore a quello delle batterie, possono sia far ammortizzare ampiamente i maggiori costi dell’investimento iniziale sia, perfino, risultare nel lungo periodo molto più economici delle batterie, che nel corso della vita di un mezzo pubblico elettrico richiedono di essere sostituite molte volte (vedansi  i dati economici riportati in seguito).

Il supercapacitore è una buona scelta anche in prospettiva; sia perché il potenziale di crescita prestazionale è alto, sia perché il mercato sta reagendo bene a questo tipo di nuova tecnologia ed è pronto a investire pesantemente sulla ricerca nel settore ed a finanziare impianti con volumi di produzione sempre maggiori. Infatti, nonostante il valore commerciale del settore sia ancora marginale rispetto a quello delle batterie secondarie, il mercato dei supercapacitori è in crescita del 30% l’anno (trend invariato nonostante la crisi) e il numero di produttori pare sia destinato a triplicare nei prossimi dieci anni [21]. È interessante inoltre notare che il loro mercato, nello stesso periodo di tempo, raggiungerà gli undici miliardi di dollari di fatturato e che, mantenendo i consumi attuali, circa un quarto della loro produzione sarà assorbito dall’Europa [13].

Purtroppo però, a sottolineare la scarsa attenzione del vecchio continente per alcuni settori strategici, si nota come meno del 7% dei produttori sia europeo e non si intravvedano segni di miglioramento. Ciò significa una perdita netta di capitali, oltre che di opportunità, in un settore tecnologico importante come quello energetico.

In generale, comunque, il numero di applicazioni in cui i supercapacitori sono impiegati è già considerevole. Il trend, in genere, è quello di affiancare o perfino sostituire con essi le batterie secondarie, ma il panorama è in continua evoluzione ed accade che gli stessi supercapacitori suggeriscano spesso nuove possibilità applicative e di prodotto.

Come già notato, nei casi in cui il peso per energia accumulata non sia un problema, il supercapacitore offre ottime prestazioni quando lavori a basse temperature, quando sia soggetto a molti cicli di carica e scarica o quando la rapidità di carica e/o scarica sia esigenza cruciale. Esempi di applicazioni in cui l’impiego di supercapacitori è già ampiamente attestato sono i sistemi di apertura di emergenza negli autobus, i gruppi di continuità, i sistemi di recupero dell’energia in frenata e di stop/start delle autovetture (ibride in particolare) e la parziale sostituzione delle batterie negli autocarri (per dar loro più spunto all’avviamento, specie in climi rigidi)[13], [20], [22]. Essi trovano impiego, inoltre, nei sistemi di protezione dai salti di potenza in impianti di generazione eolica o solare, negli apparati di recupero dell’energia in carroponti ed elevatori e, recentemente, anche nei dispositivi portatili (flash potenti e wi-fi) che richiedano una potenza superiore a quella fornibile dalle batterie.

L’elenco completo sarebbe lungo e anche difficile da tenere aggiornato perché il mercato dei supercondensatori è talmente dinamico da far registrare nuove applicazioni con grande frequenza. Attualmente, comunque, è il settore automotive ad apparire il più adatto al loro impiego. Come intuito da Sequoia Automation, infatti, molte aziende di trasporto stanno puntando su mezzi forniti di supercapacitori; il cui ampio spettro di utilizzo va da usi limitati, come i già citati sistemi di recupero di energia in frenata e di start/stop, ad usi più estesi, come affiancamenti a batterie, per fornire spunti maggiori o potenza extra nelle salite o per preservare le batterie nei veicoli elettrici o ibridi.

Già si possono citare vari esempi. Il maggiore in termini economici è la commessa da 318 milioni di dollari, vinta da Meidensha/Sojitz, per fornire 2 MW di supercapacitori alla linea metropolitana South Island di Hong Kong.

Installazione che si ritiene possa ridurre del 10% i consumi lungo quel tracciato di 7.1 Km con cinque stazioni [21]. A Parigi, Batscap fornirà decine di migliaia di supercapacitori da installare su auto elettriche Bluecars come ausilio alle batterie tradizionali.  La prima auto a celle a combustibile, e altri veicoli che impiegano supercapacitori per alimentare e gestire la trazione, saranno in produzione già nel 2015. In Cina, è previsto per il 2014 l’inizio dei test di tram e treni elettrici nei quali un sistema ibrido di trazione, dotato di supercapacitori, permetterà di far funzionare i mezzi anche nelle emergenze e di eliminare, per motivi estetici, le linee elettriche aeree nei luoghi di particolare pregio o agli incroci. Lo stesso Bombardier, noto costruttore di autobus a basso impatto ambientale, pare stia pensando di usare supercapacitori per il recupero di energia in frenata e Riversimple intende impiegarli ad ausilio delle celle a combustibile che alimentano i suoi veicoli [22].

Soluzioni ancora più radicali, in cui l’energia è accumulata soltanto da supercapacitori, sono per ora impiegate unicamente su autobus urbani, ma è da sottolineare come la transizione da sistemi ibridi senza supercapacitori ad altri misti batterie/supercapacitori e poi a sistemi con soli supercapacitori sia avvenuta ad una rapidità impressionante: ennesima riprova delle inattese opportunità tecnologiche che questo tipo di accumulatori può offrire. Esempi di mezzi “full electric” a soli supercapacitori sono forniti da MAN e da CSR Zhuzhou Electric Locomotive [23]. Quest’ultima sta testando un prototipo di metropolitana leggera – quindi su rotaie – nella quale una “spina”, collocata sotto il pianale del convoglio, può collegare i supercapacitori, sistemati sul tetto, ad una  “presa” sul terreno (Figura 5). Le ricariche avvengono durante le fermate, richiedono solo 30 secondi ciascuna e assicurano 2 Km di autonomia, grazie anche al recupero di energia in frenata. Il produttore ne prevede la commercializzazione per il 2014, ad un potenziale mercato di un centinaio di medio-piccole città cinesi, oltre ovviamente al mercato estero.

Pertanto, sebbene l’idea di alimentare un mezzo elettrico stradale a soli super-capacitori possa apparire estrema, il concetto attira comunque le attenzioni di vari costruttori in tutto il mondo.

Il problema principale di questo tipo di accumulatori – una minore capacità in energia a parità di peso rispetto alle batterie secondarie – è stato superato da Sequoia Automation con un sistema di ricarica rapida che li rifornisce in pochi secondi durante le fermate del veicolo, la cui mobilità ne viene modificata molto limitatamente mentre rimangono praticamente inalterati i tempi di trasporto e salita-discesa degli utenti. 

Detto sistema è composto essenzialmente da due parti: a) sotto il pianale del veicolo, da un braccio elettromeccanico che regge una piastra conduttiva, dotata di una fitta rosa di puntali metallici; b) sul manto stradale, da un “tappeto” di esagoni metallici, elettricamente isolati gli uni dagli altri, ma ciascuno connesso al sistema elettrico ed elettronico di ricarica, e realizzati in un materiale che ne garantisce lunga resistenza all’usura, senza costituire limite o pericolo alla mobilità degli altri veicoli o dei pedoni. 

Il braccio può calarsi o ritirarsi in pochi istanti ed adattarsi a ogni mutamento di assetto del veicolo perché la piastra possa adagiarsi in modo ottimale sul “tappeto” e mantenere un contatto elettrico stabile durante tutta la ricarica (Figura 6). 

Figura 6: schema funzionamento del sistema a ricarica rapida K-Bus.

Piastra e tappeto assicurano così il collegamento elettrico tra i supercondensatori installati sul mezzo ed altri sistemati a terra, permettendo ai secondi di ricaricare i primi in tempi brevissimi. Il flusso di corrente è infatti molto alto – da cui tempi di ricarica simili a quelli richiesti per la normale salita e discesa dei passeggeri – ma è scevro da rischi per persone o cose grazie all’architettura ideata per l’accoppiamento piastra-tappeto ed all’elettronica di assistenza. Le dimensioni del tappeto, inoltre, agevolano il posizionamento del mezzo per la ricarica, dato che consentono margini di errore di decine di centimetri, cioè ben maggiori di quelli che sono richiesti, ad esempio, dai sistemi di ricarica induttivi.

Uno dei punti-chiave del sistema sta nel set di supercondensatori a terra; “serbatoi energetici” che possono erogare, in pochi secondi, potenze impensabili per la normale rete elettrica; dalla quale essi attingono energia durante il tempo, ben più lungo, che intercorre tra il passaggio di un autobus e il successivo. Si evita così di dover posare costosi e complessi cablaggi di grossa sezione.

Un altro punto-chiave è dato da una serie di accorgimenti previsti perché il contatto tra la piastra del veicolo e il tappeto assicuri un rapido passaggio di corrente in totale sicurezza: a) un sistema wi-fi fa percepire all’elettronica del veicolo l’avvicinamento ad un punto di ricarica ed iniziare la discesa del braccio di rifornimento; b) la piastra, dotata anche di una spazzola per pulire il tappeto da possibile sporcizia, è premuta contro di esso per garantire un ottimale contatto elettrico; c) dei puntali della piastra, disposti su circonferenze concentriche, in cui quelli più interni sono il polo positivo mentre quelli più esterni, a “protezione”, sono il ritorno di massa; d) il contatto tra ogni singolo puntale e gli esagoni metallici del tappeto è verificato da un apparato elettronico in grado di identificare, tra l’altro, il codice della presa e dell’autobus, la posizione esatta del mezzo relativa al tappeto, il numero esatto di puntali in contatto con ogni singolo esagono e l’assenza di “ponti” conduttivi o interruzioni del contatto per cause esterne; e) solo dopo aver verificato che non esistano ostacoli ad un sicuro trasferimento di energia, il sistema elettronico alimenta i soli esagoni in contatto con i puntali con polo positivo e la ricarica ha effettivamente luogo (Figura 7).

Figura 7: dettagli costruttivi della piastra conduttiva a bordo del veicolo e sua alimentazione.

Nel caso che per qualsiasi motivo non possa essere eseguito il rabbocco di energia, il mezzo è dotato di una batteria secondaria (di limitate dimensioni) adeguata a fornirgli l’autonomia sufficiente a raggiungere la successiva stazione di ricarica.
Questa soluzione, a zero-emissioni inquinanti, consente quindi di mantenere un limitato peso di accumulatori a bordo del mezzo, senza limitarne il raggio d’azione, diminuendone i costi operativi (Figura 8) e rendendolo perfettamente funzionale al traffico urbano, senza creare limitazioni ad altri mezzi, com’è invece il caso di quelli su rotaie, e con la flessibilità d’impiego tipica dei veicoli su gomma.

 
Figura 8: Comparazione costi operativi tra vari sistemi alternativi di alimentazione di autobus urbani.

Anche le stazioni di ricarica avrebbero costi d’investimento iniziale e di gestione contenuti, rispetto, per esempio, ad un sistema a linea elettrica aerea, che comporta anche un notevole impatto estetico.

Inoltre, su percorsi con marcati dislivelli, per limitare il consumo complessivo di energia, il progetto K-Bus prevede che i mezzi procedenti in discesa ricarichino i propri supercapacitori attraverso il recupero in frenata, che riforniscano con essi di energia i supercapacitori a terra attraverso lo stesso sistema di ricarica e che detta energia sia convogliata alle stazioni di fermata del tratto in salita per rifornire a basso costo i mezzi che lo stanno percorrendo.

Un esempio pratico di conto economico è stato ricavato dal confronto fra i dati riguardanti l’attuale linea GTT Star 1 di Torino e quelli di una ipotetica linea analoga, ma dotata di mezzi K-Bus. La linea attuale è basata su un sistema di autobus elettrici a batterie secondarie, che coprono un percorso di quasi 12 km con una parziale ricarica delle batterie ai capolinea per mezzo di un sistema induttivo Wampfler e una ricarica totale durante le ore notturne.

Ne è risultato che se si sostituisse, a parità di servizio e di mezzi, l’attuale impianto con uno  realizzato secondo l’innovativo sistema K-Bus di Sequoia Automation, si otterrebbe un costo d’investimento iniziale pari a poco più della metà di quello del sistema attuale.  Inoltre la diminuzione dei costi complessiva a 12 anni (compresi anche i costi operativi di manutenzione)  ammonterebbe a più del 50% rispetto all’esborso che  il sistema attuale richiede a causa della frequente sostituzione delle batterie secondarie che esso comporta.

In modo del tutto analogo, nel contesto del trasporto pubblico urbano, un mezzo elettrico K-Bus, anche con autonomia operativa limitata ad alcuni chilometri, potrebbe sostituirne uno a motore endotermico grazie al sistema di ricarica rapida brevettato da Sequoia Automation. Tale sistema, infatti, non limiterebbe affatto l’operatività del mezzo o la fruibilità del servizio da parte del pubblico, ma apporterebbe anzi un grosso vantaggio in termini di inquinamento ambientale e, nel medio periodo, perfino in termini economici.

È ovvio pensare che la sua applicazione si possa estendere ad altri ambiti dello stesso tipo; cioè a servizi per i quali un certo numero di veicoli compiono percorsi fissi e con fermate prestabilite; come la raccolta rifiuti, la raccolta ed il recapito della posta, la logistica aziendale o aeroportuale. Né si potrebbe escludere, in via di principio, l’ipotesi di più servizi, indipendenti fra loro, che ricaricano i supercondensatori dei loro mezzi elettrici tramite una sola rete di “tappeti” tipo K-bus, opportunamente distribuiti.

È stata inoltre ipotizzata l’alimentazione del sistema K-Bus con moduli fotovoltaici; i quali, posti a copertura delle pensiline nelle stazioni di ricarica meglio esposte, potrebbero rifornire i loro “serbatoi”. Considerate le quantità di energia da produrre e trasferire, e le potenze in gioco, nella maggioranza dei casi tale alimentazione non potrebbe che essere integrativa a quella da rete, mentre sarebbe la soluzione ideale per stazioni extraurbane con passaggio di mezzi limitato, specie se non vi fossero possibilità agevoli di alimentarle con la rete (Figura 9).

Figura 9: fermata autobus alimentata a pannelli fotovoltaici.

L’esperienza tecnico-scientifica maturata da Sequoia Automation nei campi qui esaminati ha permesso di affrontare e potenzialmente risolvere uno dei problemi più stringenti legati alla viabilità urbana moderna. K-Bus costituisce infatti un sistema a zero-emissioni inquinanti, ad un costo competitivo con quelli alimentati direttamente da fonti fossili (pur non considerando possibili incentivi ai veicoli elettrici), con soluzioni tecniche che garantiscono un trasporto efficiente e poliedrico e che, oltre a non influire sul traffico veicolare esistente, mantengono inalterata la fruibilità del servizio per il pubblico. In breve, una concreta soluzione per la mobilità del futuro.

Appendice:

Accenno ai Processi Fisici alla Base dei Supercapacitori e Loro Proprietà

Un tradizionale condensatore elettrostatico è composto di due armature metalliche separate da un materiale elettricamente isolante, detto dielettrico. Applicando una differenza di potenziale fra i due poli del capacitore, sulle due armature, all’interfaccia tra metallo e dielettrico si genera un accumulo di cariche di segno opposto. La quantità di carica accumulata, Q, in funzione del voltaggio, V, si definisce come capacità, C, secondo l’equazione:

C= Q/V (1)
A sua volta l’energia accumulata tra le armature del condensatore è:

E= 1/2 x C x V2 (2)

dove E è l’energia elettrostatica accumulata e C e V sono la capacità ed il voltaggio applicato.

Il voltaggio massimo applicabile, oltre il quale si genera una scarica elettrica tra le armature, dipende dallo spessore e della cosiddetta rigidità dielettrica del materiale isolante.

Se interessa un dato più facilmente paragonabile, si considera la capacità per unità di volume, ovvero la densità di capacità, Cv:

Cv = C/V (3)
dove v è il volume del condensatore. Similmente, la densità di energia, Ev, :

Ev= E/V (4)

Per un EDLC (Electrical Double-Layer Capacitor), valgono le stesse considerazioni fin qui esposte, ma, grazie alle proprietà di alcuni materiali, si possono aumentare enormemente alcune sue specifiche caratteristiche, fra cui e in particolare la densità di energia.

In generale vale che: 

 (5)

dove ?0 è la constante dielettrica nel vuoto, ?r è la costante dielettrica relativa del materiale isolante, A è l’area dell’armatura e d è la distanza tra le armature (ovvero, in genere, lo spessore del dielettrico).

Nel caso particolare del condensatore elettrochimico, si cerca di aumentarne la capacità (e quindi l’energia contenuta) aumentando l’area e diminuendo lo spessore del dielettrico. Analizzando nel dettaglio la struttura di questo tipo di condensatore, si nota anzitutto che non esiste più un dielettrico paragonabile al caso del condensatore tradizionale. Tra le armature si pone infatti un elettrolita che, a differenza del caso precedente, consente un flusso di cariche elettriche. Per quanto possa sembrare un controsenso sostituire un isolante elettrico con un liquido conduttore, questo consente in realtà di ridurre notevolmente lo spessore del dielettrico. Quest’ultimo si riduce infatti al solo strato di molecole di solvente che separa le cariche disciolte nell’elettrolita dall’armatura del condensatore (Figura 10). Questo sottile strato è chiamato “sfera di solvatazione” degli ioni dell’elettrolita e forma un guscio più o meno stabile di molecole di solvente che bilancia la carica degli ioni. Lo spessore medio è dell’ordine degli angstrom (10-10 m) e, osservando la formula (5), si comprende come, con un valore di d tanto piccolo, la capacità arrivi a valori tanto elevati.

Figura 10: schema semplificato di un doppio strato di ioni negativi all’elettrodo e ioni positivi solvatati nell’elettrolita liquido, separati gli uni dagli altri attraverso uno strato di molecole polarizzate di solvente (sfera di solvatazione).

Poiché la carica accumulata su ogni elettrodo é controbilanciata dalle cariche ioniche disciolte nell’elettrolita, si può inoltre dedurre come, a tutti gli effetti, un supercapacitore sia composto da due condensatori in serie, costituiti ciascuno da uno degli elettrodi, la cui carica è bilanciata da una sorta di “contro-elettrodo” creato dall’elettrolita.
Da questo schema si comprende anche perché, per evitare la conduzione elettrica per contatto tra le armature, si debba frapporre una membrana che, pur isolando elettricamente i due poli, permetta il flusso dell’elettrolita. Si comprendono inoltre le basi dei processi fisici per cui, applicato un potenziale elettrico agli elettrodi, le cariche ivi accumulate generano un flusso di ioni dall’elettrolita per bilanciare la carica netta che si è generata (Figura 11). Tali processi s’invertono poi nella fase di scarica. 

Figura 11: Schema di comportamento delle cariche in un supercapacitore “a riposo” (a sinistra) e durante la fase di carica (a destra).

 

L’altro parametro che si utilizza per massimizzare la capacità è l’aumento della superficie specifica degli elettrodi; ovvero fornire grandi aree, a parità di volume, dove sia permesso l’accumulo di carica elettrostatica. Considerando la capacità dell’elettrolita (solvente e ioni disciolti) di penetrare fin dentro a pori di dimensioni nanometriche, è infatti possibile costruire un elettrodo ad elevata area superficiale specifica, che sia così in grado di fornire grandi densità di capacità. Per fare ciò si usano in genere materiali carboniosi (perché buoni conduttori) con aree specifiche di centinaia di metri quadri per grammo di sostanza (anche più di 2000 m2/g).
Attualmente, il materiale più usato è carbone attivo derivato dalla combustione controllata di gusci di noce di cocco, attivata da vapore o, per ottenere performance ancora migliori, da bagni chimici, come soluzioni di idrossido di potassio o di acido fosforico.

Per migliorare le caratteristiche dei supercapacitori, sono stati recentemente sviluppati altri tipi di carboni attivi, sia di origine vegetale che minerale o sintetica. Ma, come accennato in precedenza, il futuro dei supercapacitori sembra legato ad una serie di materiali innovativi, che solo da pochi anni sono in via di sviluppo. Tra questi, aerogel a base carboniosa, carboni porosi derivanti da carburi, nanotubi di carbonio ed in particolare il grafene, che sembra offrire prospettive di crescita nelle prestazioni dei supercondensatori da far loro finanche superare quelle delle attuali batterie.

Ovviamente, esistono anche i già citati materiali con proprietà pseudo-capacitive, basati su ossidi metallici o polimeri conduttivi. Considerata però la scarsa diffusione di tali materiali attivi nei supercapacitori commerciali, si preferisce rimandare a testi specifici per maggiori dettagli sui processi fisici alla base delle reazioni pseudo-Faradiche che li caratterizzano [24]. Qui basti notare che, nonostante le loro ottime caratteristiche teoriche, ai fini pratici essi presentano ancora troppi problemi di tipo tecnologico ed economico per poter pensare di utilizzarli su dispositivi di largo impiego.

Di qualsiasi natura siano i materiali attivi, molto spesso si presentano in forma di polvere ed è pertanto necessario utilizzare un foglio di alluminio come supporto meccanico di un elettrodo realmente utilizzabile. Esso ha inoltre la funzione di collettore elettrico perché la conduttività del carbonio è tale da non poterlo impiegare che per elettrodi con spessori non superiori a qualche decina di micron. Diversamente, le resistenze che esso causa sono troppo alte per un utilizzo pratico e comportano, appunto, la necessità di un supporto metallico all’elettrodo. Per stabilizzare le polveri carboniose si usano leganti a base polimerica, che aiutano a formare una massa compatta e stabile e aumentano l’aderenza delle polveri al collettore metallico. Si tratta in genere di polimeri inerti, come la carbossimetilcellulosa o il polivinilfluoruro, e di polietilene ad ultra-alto peso molecolare, ma soprattutto di politetrafluoroetilene. Essi devono però essere usati con misura. Se in quantità eccessiva, comporterebbero infatti un aumento della resistenza elettrica (sono isolanti) e una conseguente diminuzione della densità di energia, rappresentando un peso morto ai fini dell’accumulo di energia.

Un’altra parte essenziale del super condensatore, come notato in precedenza, è il separatore tra le armature: una membrana porosa che deve isolare elettricamente gli elettrodi, ma anche consentire il flusso di cariche ioniche nell’elettrolita. Un flusso che deve essere ostacolato il meno possibile per minimizzare le resistenze elettriche interne del supercapacitore – cosa che si ottiene con un’adeguata porosità – ma impedendo il contatto fisico tra le opposte armature. Il separatore deve inoltre essere chimicamente inerte, perchè non possa degradare nel tempo, ed è per questo che, nel caso di elettroliti organici, si fa largo uso di fibre di cellulosa o tessuti-non-tessuti di polipropilene, mentre si usano spesso fibre di vetro, nel caso di elettroliti acquosi.

Sebbene si evidenzi spesso l’importanza dei materiali attivi, un altro componente che gioca un ruolo cruciale nel supercapacitore è l’elettrolita; dal quale dipendono molte delle sue caratteristiche finali. Sia i prodotti già in commercio che quelli in fase di sperimentazione utilizzano sostanzialmente tre tipi elettrolita: quello di tipo acquoso, quello con solvente inorganico e quello basato su un liquido ionico. Il primo è una soluzione di acqua con disciolto un sale o un acido molto solubili, come l’idrossido di potassio o l’acido solforico, che offrono un’ottima conducibilità ionica. La sua natura chimica conferisce a questo tipo di elettrolita una buona bagnabilità dell’elettrodo e un’alta permettività relativa, che consentono di ottenere elevate densità di capacità. A parità di elettrodo, è infatti possibile ottenere anche valori doppi rispetto ad un elettrolita a solvente organico. Altri suoi punti di forza sono l’elevata conducibilità elettrica – fino ad un ordine di grandezza superiore a quella degli elettroliti organici – e un basso rischio chimico, sia di infiammabilità che di tossicità. Ciò nonostante, gli elettroliti più largamente impiegati nei prodotti commerciali sono a base organica per la maggiore energia accumulabile che consentono rispetto a quelli con base acquosa.  Perché se pure, come già accennato, a parità di condizioni un elettrolita acquoso conferisce al capacitore una maggiore densità di capacità, esso però sopporta solo voltaggi non superiori a circa 1 V. Oltre tale soglia, esso inizia a degradare per reazioni elettrochimiche che si innescano all’interfaccia col materiale attivo, col risultato che parte dell’energia fornita viene impiegata per distruggere il dispositivo. Gli elettroliti organici, al contrario, riescono a sopportare tensioni fino a 2.7-2.8 V prima di incorrere nel medesimo problema. E poiché la quantità di energia accumulabile è funzione del quadrato del voltaggio massimo applicabile, come risulta dall’equazione (2) di cui sopra, è chiaro il motivo per cui, nonostante gli elettroliti organici, a parità di condizioni, conferiscano al capacitore una capacità inferiore, possono però fargli fornire performance migliori sul piano della densità di energia.

Nel bilancio tra pregi e difetti dei vari elettroliti va considerata anche la minore conducibilità elettrica di quelli organici che, di fatto, comporta una riduzione della densità di potenza, Pv. Va notato infatti che se:

  (6)

con Ri resistenza interna del dispositivo (anche nota come ESR, dall’inglese Equivalent Series Resistance), aumentando la resistenza dell’elettrolita, aumenterà anche la resistenza globale Ri. Nel confronto tra elettroliti acquosi ed organici, però, la riduzione in potenza è minima ed accettabile, visti i guadagni in termini di energia accumulata. Inoltre, il fatto di utilizzare un solvente organico permette al dispositivo di poter lavorare fino a circa -40 °C, mentre con un solvente a base d’acqua il limite non va molto al di sotto degli 0 °C.

Quindi, per quanto riguarda i prodotti commerciali, si preferisce l’uso di solventi organici e due tra questi, l’acetonitrile e il propilencarbonato, sono considerati i migliori. Entrambi hanno un limite di tensione a 2.8 V, ma il primo consente al supercapacitore di operare a temperature inferiori e, più in generale, con resistenze interne più basse, mentre il secondo ha notevoli vantaggi in fatto di rischi chimici: ha cioè una minore infiammabilità e una minore tossicità per la salute umana e per l’ambiente in caso di incidenti.

La terza categoria di elettroliti è quella dei liquidi ionici, che sono sali a base organica con una temperatura di fusione prossima alla temperatura ambiente o perfino inferiore. Perciò non richiedono solventi e, in genere, non comportano rischi di incendio o per la salute umana. Il loro pregio più importante è però l’intervallo di tensione applicabile, che può anche superare i 5 V. Questo sarebbe ovviamente un grande vantaggio in termini di energia accumulabile, ma, causa i tipi di elettrolita finora sintetizzati, la resistenza elettrica a temperatura ambiente è ancora tale da non consentirne la commercializzazione. Il voltaggio massimo applicabile, inoltre, dipende molto dall’umidità (anche poche ppm di acqua possono abbattere la tensione limite), ciò che comporterebbe notevoli problemi costruttivi e per gli impianti di produzione che si dovessero realizzare.

I singoli componenti descritti sono generalmente assemblati seguendo due distinte geometrie. Nella prima, una serie di elettrodi e separatori sono piegati e sovrapposti uno all’altro per  formare un blocco a parallelepipedo (Figura 12A). Nella seconda, lunghe strisce di elettrodi, divisi dai separatori, sono avvolte per formare un cilindro (Figura 12B). Tale configurazione è in genere la preferita per la sua semplicità, che riduce i costi di produzione.

Figura 12: A) Schema di costruzione di un supercapacitore a elettrodi sovrapposti: 1. Elettrodo positivo, 2. Elettrodo negativo, 3. Separatore; B) Schema costruttivo di un supercapacitore a elettrodi avvolti: 1. Poli, 2. Valvola di sfogo, 3. Tappo, 4. Contenitore in alluminio, 5. Avvolgimento polo positive, 6. Separatore, 7. Elettrodo in materiale attivo, 8. Collettore elettrico, 9. Elettrodo in materiale attivo, 10. Avvolgimento polo negativo

Riguardo alle performance, i prodotti presenti oggi sul mercato hanno un intervallo di densità di energia compreso tra i 6 e i 14 Wh/dm3 nei supercapacitori da qualche centinaio di Farad, mentre possono scendere anche a 3 o meno Wh/dm3 nei supercapacitori di piccole dimensioni. Comparati con i 300, e più, Wh/dm3 ottenibili dalle batterie a ioni litio di ultima generazione, questi dati possono apparire modesti, ma di contro le densità di potenza ottenibili da questi dispositivi sono anche superiori a 15 kW/dm3, contro un limite reale, anche per le migliori batterie, inferiore ad 1 kW/dm3. Questo spiega l’adozione dei supercapacitori quando sia necessaria un’elevata potenza, da erogare in tempi relativamente brevi.

Un altro punto a favore dei supercapacitori è la loro lunghissima vita utile. Essi possono infatti affrontare centinaia di migliaia di cicli di carica/scarica senza perdere significativamente in prestazioni, e su un ampio range di temperature. Le batterie invece non superano le poche migliaia di cicli, nella migliore delle ipotesi, e solo evitando loro scariche profonde. Pertanto, se l’applicazione prevede una vita utile molto lunga e/o un numero di cicli molto elevato, i supercapacitori possono essere una scelta più conveniente delle batterie dato che, come già accennato, il costo per quantità di energia accumulata, calcolato sui rispettivi cicli di vita, gioca ancora a loro favore. In un impiego per molti anni, infatti, anche se il costo iniziale per Wh accumulato è a favore delle batterie (circa 1$/Wh contro 10$/Wh), nel lungo periodo i supercapacitori tenderebbero a diventare economicamente più vantaggiosi perché, mentre le batterie richiederebbero manutenzione periodica e diverse sostituzioni, essi non le richiederebbero essendo, come si dice inglese, dispositivi “fit and forget” (“montali e dimenticatene”).

Sul singolo ciclo, poi, i supercapacitori presentano altri vantaggi. Anzitutto i tempi di scarica e ricarica sono nettamente inferiori: qualche secondo contro qualche minuto almeno. Il processo in sé è, in genere, anche più efficiente, nei supercapacitori, che riescono a mantenere un rendimento elevato (più del 95%) sia su tempi di carica/scarica ridotti che su un ampio intervallo di temperature. Ciò ha aperto le porte a nuove tecnologie, come appunto al sistema di ricarica rapida ideato da Sequoia Automation, ma anche ad altri sistemi molto interessanti, che si basano sulle proprietà peculiari dei supercapacitori. Tra questi, ai fini del progetto qui descritto, è molto importante il recupero di energia da fonti non convenzionali – quello che inglese si definisce energy harvesting o energy scavenging – con particolare riferimento al recupero di energia in frenata. Il sistema è concettualmente semplice: utilizzando il motore elettrico come generatore, si ottiene una coppia frenante la quale, oltre a rallentare il mezzo, produce anche energia elettrica che è immagazzinata in supercapacitori. La loro alta efficienza e densità di potenza li rende particolarmente adatti per tale tipo di impiego perché il freno rigenerativo può generare correnti elettriche così elevate che senza di essi non potrebbero venire immagazzinate e finirebbero dissipate in calore.

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